Cosa ti ha fatto Ramy?
Non credo che il mestiere che facciamo ci qualifichi, penso - al contrario - che come lo facciamo parecchio dica chi siamo.
Tra le cose nelle quali mi cimento, il quotidiano scrivere di fatti è uno di quelli che mi dà maggiore visibilità.
Dall’inizio dell’anno ad oggi sono stato letto, solo sui social, un pelo meno di sedici milioni di volte.
È un bel fardello, nel senso che si sente una bella responsabilità a essere letto da così tante persone. Responsabilità ovviamente sul come, giorno dopo giorno, scrivere.
Dall’altra parte la visibilità si paga, con il rischio querele (per ora non ne ho persa nessuna) e con le minacce. Arrivano, in certi periodi di più, in altri di meno.
Ne arrivano così tante che neppure ci badi, poi però ce ne sono alcune che ti fanno pensare: ti fanno pensare perché mai qualcuno arrivi a volere la tua morte per qualcosa che hai scritto.
Qualche giorno fa ho “parlato” di Ramy e di come la sua morte sia sentita da una parte del Corvetto, il posto dove viveva e dove vivo, e di come con ogni probabilità verrà letta ogni sentenza sul suo omicidio. Ricordo che ci sono due indagati per omicidio stradale.
Italo Saveri, neppure so se si tratti di una persona vera o di uno pseudonimo dietro cui qualcuno si celi, mi ha raggiunto scrivendomi questo (errori compresi): «Hei, testa di cazzo, se ami tanto Ramy, prendsi una corda , impiccati e poi vai a fargli compagnia!».
Immagino che gli errori, per questo li ho lasciati, siano dovuti alla foga, alla rabbia con la quale è stato scritto il messaggio.
Impressiona, almeno me, non tanto il “consiglio” di impiccarmi, quanto l’odio evidente per Ramy.
Ammesso e non concesso che il mio scrivere sia una colpa, Ramy che colpa mai aveva? Quale così grande da esserci indifferente la morte? Così indifferente da non voler indagare la dinamica del suo assassinio? Da non aver la necessità di appurare se sia un danno collaterale alla nostra idea di società o se sia in antitesi al modello di società che abbiamo in mente?



