A Gaza è genocidio?
Ma davvero pensate che il problema di Gaza, di chi a Gaza sta morendo - per mano del sanguinario governo Netanyahu e per cinica interessata indifferenza dei Paesi dell’Unione Europea - sia nell’uso di quale parola usare per definire la morte di oltre sessantamila tra donne, uomini e tanti, tantissimi bambini?
Io, come nessuno del resto di noi che siamo diretti a Gaza via mare, non so se davvero sbarcheremo a Gaza, se romperemo l’assedio, però - forse con una dose di arroganza - sono certo che nessuno lì ci accoglierà chiedendoci se l’immane strage dei loro figli, mogli, mariti, fratelli, genitori, amori, amici, possa essere definita “genocidio”.
E questa mia arroganza mi deriva dal fatto che quando il 23 luglio del 1944 fu liberato dall’Armata Rossa il primo campo di sterminio creato dai nazisti, la parola “genocidio” non era ancora stata inventata.
È infatti comparsa per la prima volta nel novembre del 1944, uscita dalla penna e dall’intelligenza giuridica di Raphael Lemkin, che a pagina 79 del suo “Axis Rule in Occupied Europe” scrisse quella parola da lui coniata: “genocidio”.
Quindi, neppure volendo, i sopravvissuti avrebbero potuto accogliere i loro liberatori con la domanda: “ma è stato genocidio?”.
Spero di non urtare di nessuno la sensibilità, ma neppure i liberati di Auschwitz sapevano di essere stati vittima di genocidio, di quello che allora era un “neologismo”.
Se a Gaza sia in corso un genocidio lo deciderà sicuramente la Storia e forse un tribunale: questo perché di una questione giuridica si tratta.
Benjamin Netanyahu deve finire in un carcere per aver commesso crimini di guerra contro l’umanità? Non ho alcun dubbio.
Ma questa mia certezza non vale nulla, perché la mia opinione e valutazione non vale nulla senza un tribunale internazionale che questo decreti e di conseguenza agisca.
Ci sarà un tempo che la questione giuridica potrà avere la giusta attenzione e priorità: oggi credo che l’urgenza sia rompere l’assedio.
E questo, questo rompere l’assedio, è quello che possiamo fare.
Noi che siamo su barche dirette a Gaza lo stiamo provando a fare, perché questo sì che è nelle nostre possibilità.
Tant’è che lo stiamo facendo e così lo sta facendo chiunque ci stia in qualche modo sostenendo.
Rompere l’assedio è la base di tutto. E farlo velocemente lo è ancora di più, anche per dare gli strumenti a chi di dovere di stabilire oltre ogni ragionevole dubbio che di genocidio si è trattato.
I nazisti che scappavano dall’avanzata di Armata Rossa, distruggevano tutto per cancellare le prove di quello che era stato.
A Gaza, il governo Netanyahu, la medesima cosa sta probabilmente facendo con cinica furia omicida.
Ma questo non è un fatto: è un mio sospetto, una mia presunzione, una mia illazione.
E così sarà finché qualcuno - uno di noi giornalisti, per esempio - lì sbarcherà e di tutti gli assedi romperà quello più subdolo: quello dell’informazione. Che non è un tribunale, ma spesso di un giusto e informato processo è stato ineludibile premessa.
«Perché voi giornalisti state andando lì?», mi chiedono spesso.
Uno dei motivi è senz’altro che senza prove video e fotografiche Auschwitz non sarebbe Auschwitz e il genocidio là perpetrato sarebbe “solo” un’illazione. Un’impunita illazione.